SOS Gaia
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Il logo adottato per la campagna referendaria

In Piemonte una decisione che fa discutere e scatena dissensi in tutta Italia

 

Dopo una serie infinita di tira e molla, quando ormai il referendum sulla caccia in Piemonte era stato indetto dalla Regione e la campagna referendaria era già in stato avanzato, con manifesti in tutti i Comuni del Piemonte, banchetti nelle piazze, volantinaggi, locandinaggi e quant’altro, colpo di scena: la Regione Piemonte abroga la legge oggetto del referendum, e quindi, niente legge, niente referendum.

La decisione della Regione ha inevitabilmente scatenato una serie di polemiche e di reazioni non solo tra gli animalisti, ma si è estesa a macchia d’olio anche tra quanti vedono in questa azione un attentato alla democrazia.

Ma facciamo un passo indietro.

25 anni fa 60.000 piemontesi firmarono per indire un referendum regionale che chiedeva l’abrogazione di alcuni articoli della legge regionale 60/79, la normativa allora vigente in materia di caccia. Nel 1988 la Regione Piemonte dichiarò la richiesta ammissibile, ma subito dopo varò una nuova normativa, la L.R. 22/1988, proclamando la cessazione delle operazioni referendarie, essendo mutata la norma oggetto di consultazione. La nuova legge recepisce solo in piccola parte le richieste del quesito referendario, ad esempio le specie cacciabili sono ancora 29, a fronte delle 4 previste dal quesito.

Il Comitato promotore del referendum, costituito da LAC, LAV, Pro Natura, LIPU, LEGAMBIENTE, WWF,  Italia Nostra e sostenuto da numerose associazioni animaliste e ambientaliste, impugnò il provvedimento davanti al TAR Piemonte, che però si definiva incompetente, vertendo l’oggetto della domanda sulla lesione di un diritto soggettivo, ed essendo pertanto di competenza del giudice ordinario.
Il Comitato iniziava quindi una battaglia legale che transitò attraverso tre gradi di giudizio davanti al Giudice ordinario e che durò dal 1999 al 2002. Il Tribunale di Torino rigettò la domanda del Comitato. La Corte d’Appello di Torino invece annullò il decreto della Giunta Regionale in quanto non era stata prevista una comparazione tra la nuova legge e quella precedente: pertanto non era stato possibile valutare se le istanze dei promotori fossero state accolte o meno. La Corte di Cassazione rigettò il ricorso della Regione e confermò quanto disposto dalla Corte d’Appello.

Un presidio a Torino davanti alla sede della Regione Piemonte per protestare contro l’abolizione del referendum

La Regione, allora, nominò una Commissione per valutare se la nuova disciplina aveva o meno recepito le istanze referendarie. Questa concludeva i suoi lavori con esito positivo. Con conseguente decreto n. 89/2002, la Regione dichiarò nuovamente l’annullamento delle operazioni referendarie.

Il Comitato allora si rivolse al TAR Piemonte con due distinti ricorsi, uno con cui chiedeva il giudizio d’ottemperanza sulla decisione della Corte d’Appello, e l’altro con cui chiedeva l’annullamento del decreto 89/2002. Le domande vennero ambedue respinte, la prima in quanto inammissibile per cessazione della materia del contendere, la seconda per difetto di giurisdizione, trattandosi di materia di competenza del giudice ordinario. La prima sentenza venne ricorsa in Consiglio di Stato, che confermò però la sentenza del TAR Piemonte.

Nel 2006 il Comitato iniziava la causa davanti al Tribunale di Torino per ottenere l’annullamento del decreto della Giunta Regionale n. 89/2002. Il 5 settembre 2008, con sentenza n. 6156, il Tribunale di Torino, Prima Sezione  accoglieva le istanze dei promotori del referendum e riconosceva il loro pieno diritto alla prosecuzione del processo referendario.
Il 29 dicembre 2010, con sentenza n. 1986, la Corte d’Appello di Torino respingeva il ricorso presentato dalla Regione Piemonte contro la sentenza di primo grado e ribadiva la legittimità della richiesta referendaria. Il 23 novembre 2011 una sentenza del TAR confermava la decisione della Corte e stabiliva il referendum per la primavera del 2012.

Quindi in definitiva, il referendum si doveva fare. E arriviamo ai giorni nostri.

Molti personaggi politici si sono schierati in favore del referendum per limitare la caccia in Piemonte, tra cui l'Onorevole Brambilla

Dopo questa serie infinita di corsi e ricorsi, la Regione Piemonte ha dovuto accettare di indire il referendum e finalmente, a fine aprile 2012, ne ha stabilito ufficialmente la data: domenica 3 giugno 2012. Anche la data ha suscitato polemiche, poiché la richiesta dei promotori era di accorpare il referendum alle elezioni amministrative, con conseguente risparmio di diversi milioni di euro. Oltretutto il 3 giugno cade in un periodo di ponte festivo, penalizzando chi andrà a votare.

Ma non importa, la cosa fondamentale era che finalmente il referendum, dopo 25 anni, avrebbe avuto luogo.

Cosa chiede il referendum? Quattro semplici punti:

1 – Divieto di caccia per 25 specie selvatiche
Viene richiesta la cancellazione dall’elenco delle specie cacciabili di 25 specie di fauna selvatica italiana con la conseguente istituzione del divieto di caccia.

2 – Divieto di caccia la domenica
Viene richiesta la cancellazione della domenica dai giorni nei quali la caccia è consentita con la conseguente istituzione del divieto di caccia la domenica.

3- Divieto di cacciare su terreno coperto da neve.
Già oggi è così: sono tuttavia previste numerose eccezioni (ad esempio la caccia alla volpe, agli ungulati e alla tipica fauna alpina) che il quesito vorrebbe invece eliminare.

4 – Limitazione ai privilegi concessi alle aziende faunistico-venatorie.
Di fatto, nelle ex riserve private di caccia si possono abbattere animali in numero molto maggiore rispetto al territorio libero, non dovendosi applicare i limiti di carniere per molte specie. Il referendum vuole abolire questo privilegio per chi può permettersi di andare a caccia in strutture private.

Anche la scienziata Margherita Hack ha sostenuto il referendum

Parte la campagna referendaria, il movimento del Sì si organizza e promuove volantinaggi, locandinaggi, banchetti, manifestazioni, tutto quanto può servire a sensibilizzare i piemontesi, anche se in extremis (vista la lentezza burocratica con cui era stato indetto il referendum), allo scopo di  ottenere il quorum. Ovviamente, tutto questo a spese dei volontari delle associazioni promotrici del referendum.

Ma i primi di maggio, colpo di scena: il Consiglio regionale vota l’abrogazione della Legge Regionale 70/96 sulla caccia, con conseguente annullamento del referendum. La motivazione è lo spreco di denaro pubblico che il referendum avrebbe implicato, denaro che la Regione preferisce destinare ad “assistenza sociale”. Il Comitato ha però replicato che se il referendum fosse stato accorpato alle elezioni amministrative, si sarebbero quasi completamente abbattuti i costi.

L’eliminazione del referendum è avvenuta a meno di trenta giorni dalla data della consultazione, quando la macchina referendaria era già attiva da mesi e aveva già coinvolto migliaia di volontari.

Ovviamente questa presa di posizione da parte della Regione Piemonte ha scatenato polemiche non solo nel mondo animalista e ambientalista, ma ha indignato trasversalmente tutte le aree sociali perché l’azione è stata vista come un attentato alla democrazia.

Perfino nell’area dei cacciatori questo fatto è stato accolto con preoccupazione, in quanto speravano che il referendum passasse inosservato e non raggiungesse il quorum, mentre ora la visibilità della questione è alle stelle, e di certo, se si arriverà a un nuovo referendum, ora avrà molte più probabilità di passare.

Il Comitato del referendum non ha nessuna intenzione di starsene con le mani in mano. La prima azione, decisa subito a ridosso dell’abolizione, è una grande manifestazione nazionale di protesta che si svolgerà a Torino il 3 giugno, proprio la data in cui avrebbe dovuto svolgersi il referendum. Manifestazione a difesa non solo della fauna selvatica, ma soprattutto dei diritti costituzionali dei cittadini.

I volontari di SOS Gaia, una delle associazioni che sostengono il referendum, durante la campagna referendaria

Inoltre il Comitato Promotore chiederà che venga indetto il referendum non appena sarà promulgata la nuova legge sulla caccia, nella certezza che questa non avrà recepito i quesiti, rinviando di nuovo il problema. Il Comitato ha intenzione anche di chiedere il risarcimento civile dei danni per la non indizione del referendum.

Insomma, la battaglia è appena iniziata.

Ricordiamo che il referendum non chiede l’abolizione della caccia. Non era possibile richiedere con un referendum regionale l’abolizione di una attività prevista da una legge nazionale. Ne chiede però un sostanziale ridimensionamento.

Considerando che i cacciatori rappresentano solo lo 0,6% dei piemontesi, e che il75% degli italiani (piemontesi compresi) è contrario alla caccia, non si capisce l’accanimento con cui si cerca con ogni mezzo di mantenere una pratica anacronistica e tanto avversata nonché temuta dalla maggioranza della popolazione. Non dimentichiamo che ogni anno sono centinaia le vittime della caccia. Purtroppo annualmente si verificano incidenti che coinvolgono, oltre ai cacciatori, anche persone completamente estranee all'attività. Questo soprattutto perché tuttora l'art. 842 del Codice Civile consente ai cacciatori di entrare liberamente nella proprietà privata altrui, una prerogativa pressoché unica in Europa, nonché una contraddizione rispetto al diritto di proprietà privata protetto dalla Costituzione. A rischio non sono quindi solo le specie cacciabili, ma le persone, i loro bambini e i loro animali domestici.


Per approfondimenti: www.referendumcaccia.it

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