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Centinaia di migliaia di individui di falena vengono allevati al solo scopo di essere uccisi per ricavarne il bozzolo

La stoffa degli Dei non è così pura come molti amano pensare. Un filato considerato nobile e puro in realtà nasconde sofferenze umane, animali e, addirittura, vegetali

 

Sono stati scritti libri, girati film, cantate canzoni su di esso, ma ciò che più ha reso famoso nel mondo questo tessuto è il suo pregio, la sua inconfondibile delicatezza. La sua straordinaria purezza.

Seta. Già il suo nome è una soave onomatopea. Al tocco sembra sfuggire come acqua che scorre tra le dita. Effimera creazione orientale, è stata da sempre venerata come la più preziosa tra tutte le stoffe. Al contrario delle altre, però, la sua storia non ha nulla d’invidiabile.

La materia prima da cui si ricava la seta è la fibra proteica prodotta da una falena (Bombyx mori), nota come baco da seta, che tesse il bozzolo per compiere la metamorfosi da bruco a crisalide a pupa sino a sfarfallare. La bachicoltura, la coltivazione del baco, è nota in Cina già dal 3000 a.C. e venne tenuta segreta per secoli sinché alcuni monaci dell’ordine di San Basilio al servizio dell’imperatore Giustiniano non giunsero nel Paese del Sol Levante per carpirne le tecniche di produzione. I religiosi tornarono a Costantinopoli e portarono, poi, in Italia alcuni bachi e i frutti della pianta dalle cui foglie traggono nutrimento i bruchi prima di costruire il prezioso bozzolo.

La Via della Seta, una rotta commerciale che si macchiò del sangue degli schiavi che venivano catturati in Oriente per lavorare nei campi di bachicoltura

Prima della missione furtiva compiuta dai monaci, la Cina aveva stabilito con l’Europa la famosa Via della seta, un intricato reticolo di strade, rotte marittime, passaggi fluviali, etc. che si snodavano per oltre 8000 km da oriente a occidente per portare nel ricco Vecchio Continente materie prime, prodotti agricoli, minerali e pietre, ma soprattutto seta finissima tessuta dalle sapienti mani dei sarti cinesi.

Sino allo sbarco degli europei e alla fioritura dell’industria italiana nel XII secolo, la produzione di seta era un’esclusiva orientale e in Giappone l’importazione del tessuto dalla Cina, per via dell’influenza del popolo Han, era consistente, necessaria soprattutto per vestire imperatori e sovrani, ma anche per realizzare i kimono dei guerrieri samurai e delle mogli dei regnanti.

La Via della seta continuò ad essere utilizzata per molti secoli dopo che il segreto della stoffa tanto amata in Occidente fu svelato e trasferito in Sicilia, ma questa rotta commerciale pian piano si macchiò del sangue degli schiavi che venivano catturati in Oriente per lavorare nei campi di bachicoltura e portò allo sterminio di centinaia di migliaia di individui di falena allevati al solo scopo di essere uccisi per ricavarne il bozzolo. Ebbene sì, in pochi lo sanno o vogliono saperlo, ma per vestire morbidi scialli in seta o per avere in casa una tenda pregiata è necessario far crescere e schiacciare centinaia d’ignare falene in sviluppo nel loro involucro della morte.

Ceste di bozzoli di bachi da seta pronti per essere lavorati con acqua bollente

Prima del raggiungimento della metamorfosi completa, il baco viene “sacrificato” e il bozzolo, composto per l’80% da fibroina e da un 20% di sericina viene trattato in acqua calda o con solventi per rimuovere componente nella minor percentuale ed estrarre il materiale necessario per i filati.

Sono necessari dai quattro agli otto bozzoli, cioè è necessario uccidere 4-8 bruchi in metamorfosi, per ottenere un solo filo di seta “cruda”.

Oltre al sacrificio degli schiavi durante l’importazione europea e al lavoro forzato nei campi di coltura dei bachi, oltre al sacrificio di un animale che, se fosse un panda, un orso o una tigre, il mondo intero si sarebbe impegnato a salvare da un’indegna uccisione, c’è un altro essere vivente che la storia della seta ha sfruttato per poi relegarlo all’estinzione: il gelso.

Sembra incredibile che un filato così nobile e puro possa nascondere sofferenze umane, animali e, addirittura, vegetali.

Il Morus alba, noto come gelso bianco è l’ultima vittima sacrificale della seta. Sembra che fu scoperto da Marco Polo nel 1271 in Cina. I monaci, giunti successivamente, capirono presto che il segreto per far sviluppare i bozzoli fossero proprio le foglie di questa pianta tanto amata dal baco da seta. La falena, infatti, depone le sue uova proprio sull’albero di gelso e alla schiusa i bruchi che fuoriescono si alimentano con voracità prima d’impuparsi. Negli ultimi decenni si è tentato di alimentare i bruchi con svariati prodotti di sintesi, ma sembra che questi preferiscano sempre i saporiti alberi di gelso.

Col recente tramonto dell’industria della seta, in Italia in particolare, la coltivazione del gelso è stata fortemente arrestata e la specie, che produce insieme al suo congenere nigra dei frutti allungati simili alle more (giallognoli nel caso del gelso bianco), rischia l’estinzione dal Belpaese.

Eppure la delicatezza del sapore degli acheni, i frutti di queste due specie, rivestiti dal carnoso e dolce perigonio, dovrebbero costituire la ragione principale per salvare gli alberi esistenti (invece di capitozzarli come spesso accade) e per diffondere la coltivazione di questa essenza sempre più rara.

Forse, ogni singola piante di gelso salvata potrebbe ricordare agli uomini, come un cippo memoriale, che il desiderio di lusso ha creato nei secoli schiavi della propria e delle altre specie, catturati, allevati, coltivati, sfruttati e schiacciati come fossero privi di emozioni, sensazioni, sentimenti. Come se l’apparire possa ottundere la mente sino al punto in cui sopruso e morte per ogni essere vivente, sia questo un uomo, un animale non umano o una pianta, diventano insignificanti dinanzi al ridicolo sfoggio d’apparenze, che svaluta il piacere della genuinità dei frutti che si mettono dentro il proprio corpo e valorizza assurdamente i simboli dei soprusi che si mettono sopra il proprio corpo.

Si salvi il gelso, si liberino gli schiavi. Volino le falene nella notte dei tempi. Che si riscriva la storia ripartendo dal presente.


Roberto Cazzolla Gatti è biologo ambientale ed evolutivo, ricercatore presso l’Università degli Studi della Tuscia – CMCC, esperto in biodiversità, bioetica ed ecologia teoretica. È editor-in-chief dell'Economology Journal e editorialista della rivista scientifica Villaggio Globale, Collaudatore per il Consorzio di ricerca "Digamma" del sistema stereoscopico-chirurgico e microchirurgico "Tredimed" presso il Policlinico di Bari e specializzato in biologia della nutrizione vegetariana.

 

23 ottobre 2014