La nascita degli zoo si fa risalire al 1840 a Londra quando l'abbreviazione “zoo” fu usata per indicare il parco creato dalla Zoological Society, dove erano conservati ed esposti al pubblico animali provenienti da tutto il mondo.
Le finalità che si prefiggevano erano divulgative, cioè portare a conoscenza dei bambini e degli adulti animali provenienti da paesi lontani di cui si favoleggiava ma che la maggioranza delle persone non aveva mai avuto la possibilità di vedere dal vivo. Inoltre si pensava gli zoo potessero servire per la conservazione di specie a rischio di estinzione.
Si è anche avuta una evoluzione per cui le strutture sono state ampliate, laddove si è potuto, e sono stati realizzati i “Parchi zoologici” o simili che vogliono suggerire l'idea di un superamento della tradizionale struttura dello zoo, richiamando la ben diversa situazione dei Parchi naturali. Le considerazioni relative ai “Parchi zoologici” e simili, però, non sono diverse da quelle inerenti gli “zoo” in quanto il parziale aumento dello spazio disponibile non consente una vita diversa rispetto alle tipologie tradizionali. Pertanto le considerazioni che seguiranno si devono intendere valide sia per gli zoo propriamente detti sia per i “parchi” zoologici variamente definiti, restando fermo che solo per le riserve naturali e le oasi di recupero degli animali, senza scopo espositivo, il giudizio dev'essere rimodulato.
Oggigiorno coloro che propugnano la persistenza degli zoo e strutture similari, ne illustrano potenzialità in ambito non solo di conservazione di specie a rischio, ma anche di ricerca e studio scientifico nonché un loro valore educativo al rispetto per gli altri esseri viventi.
Un'analisi globale permette di evidenziare invece le negatività connesse a tali strutture.
Tutela ambientale
La motivazione principale, che di fatto sostiene tutte le altre, è quella di preservare le specie a rischio di estinzione.
Se anche vi fosse una attività di conservazione, ma si vedrà in seguito che così non è, si tratterebbe di un apporto minimo, in quanto, delle circa 5926 specie catalogate dall'International Union for the Conservation of Nature (IUCN) in via di estinzione, solo circa 120 (pari al 2%) sono coinvolte in programmi internazionali di allevamento negli zoo. Non solo si tratta di una minima parte ma è anche criticabile se si considerano i presupposti scientifici di una vera opera di conservazione.
Il punto centrale e irrisolvibile negli zoo, e nei Parchi Zoologici e simili, è il mantenimento del patrimonio genetico originale delle diverse specie, impresa praticamente impossibile in quanto all'interno di una stessa specie esistono differenze genetiche tra gruppi o nuclei che vivono in habitat diversi.
Le diverse popolazioni appartenenti ad una stessa specie animale hanno infatti selezionato un proprio particolare patrimonio genetico tipico di quella popolazione per adattarsi in modo ottimale ad un determinato habitat. Lo studio di particolari sequenze di DNA (“microsatelliti”) ha permesso di osservare che esistono differenze sostanziali non solo quando sono visibili fenomenologicamente, come tra elefanti indiani e africani, ma anche tra gruppi morfologicamente simili che popolano habitat vicini ma diversi.
Negli zoo la “confusione genetica” raggiunge livelli altissimi in quanto le provenienze degli animali sono molto variegate per cui una eventuale progenie avrebbe un patrimonio genetico non corrispondente a nessuno di quelli presenti in natura.
La riproduzione negli zoo invece di preservare la biodiversità diventa un fattore di diminuzione della biodiversità, perché sottrae di fatto porzioni di patrimonio genetico segregandole in cattività, rendendole inutilizzabili al rinsanguamento delle popolazioni naturali e creando delle combinazioni artificiali non corrispondenti ad alcuna delle tipologie presenti in natura.
L'utilità della tutela è condizionata inoltre dalla effettiva possibilità di arrivare ad un numero sufficiente di nascite. Le nascite in realtà sono poche e servono solo come pubblicità alla struttura senza alcuna ricaduta pratica. Ad esempio le popolazioni di elefanti in cattività in Europa e negli Stati Uniti, centinaia di esemplari, non sono in grado di sostenersi autonomamente, cioè le nascite non compensano i vuoti delle morti.
Un altro punto critico è che la tutela ambientale, per essere veramente tale, dovrebbe puntare alla reintroduzione in libertà degli animali, sviluppo praticamente impossibile per una serie di motivi.
In primo luogo si devono considerare le conseguenze della consanguineità (inbreeding) che, nelle piccole popolazioni, (come quelle degli zoo), dà luogo ad un patrimonio genetico poco variato, e gli animali sono di conseguenza più vulnerabili dalle malattie e meno adatti a sopravvivere in libertà. Quindi gli animali eventualmente riprodotti non sopravviverebbero se fossero rilasciati in libertà.
Inoltre, se nella vita libera arrivassero comunque a riprodursi inquinerebbero il patrimonio genetico delle popolazioni presenti indebolendole, così per esse diminuirebbe la possibilità di sopravvivenza invece di migliorare.
In secondo luogo gli animali sono spesso in pericolo di estinzione non solo per effetto della caccia ma anche per la distruzione del loro habitat. Di conseguenza la reintroduzione è impossibile perché gli ambiti territoriali non ne permetterebbero la sopravvivenza, i nuovi arrivati avrebbero le stesse difficoltà dei preesistenti che si sono estinti o sono in grave pericolo
In terzo luogo l'animale nato e vissuto negli zoo manca di tutte le conoscenze che si sviluppano nella vita naturale, soprattutto per opera delle cure parentali. Inevitabilmente hanno modalità di comunicazione diverse da quelle delle popolazioni naturali per cui sono a fortissimo rischio di rimanere isolati, conducendo una vita solitaria e non essendo utili alla riproduzione; nei casi più gravi possono addirittura essere aggrediti dai loro consimili.
La nascita in ambiente artificiale li priva delle conoscenze utili a sopravvivere in libertà, come ad esempio l'esperienza e l'abilità non solo per interagire con gli eventuali avversari ma anche per procurarsi il cibo: manchevolezze che mettono a grave rischio la loro vita.
In conclusione la finalità di tutela è solamente utopica in quanto non è praticamente possibile riuscire a rinfoltire le popolazioni allo stato selvatico sia perché la tipologia genetica della eventuale prole sarebbe un fattore di inquinamento genetico con conseguenze negative per i consimili liberi sia perché la sopravvivenza nell'ambiente sarebbe minima rispetto al numero di animali liberati. Il bilancio pertanto è esattamente opposto alla tutela in quanto non solo gli animali non escono dagli zoo, o dai parchi zoologici, per essere messi in libertà, ma, al contrario, per avere soggetti nelle strutture queste devono continuamente acquisirne dall'esterno.
Attività scientifiche, opportunità per formazione e ricerca
La ricerca condotta su animali che vivono in ambiente artificiale come negli zoo ha pochi riferimenti rispetto alla complessità della vita libera degli animali e delle loro abitudini.
Molte delle ricerche prodotte in verità servono principalmente per giustificare la presenza degli animali esotici negli zoo senza apportare elementi importanti di aggiornamento scientifico, in quanto relative ad una tipologia di vita in stato di confinamento che non può essere comparata con la vita in libertà; quindi non hanno valore universale.
La formazione in tal modo si riferisce prevalentemente alla vita in stato di cattività e le conoscenze acquisite negli zoo non sono utili per poter comprendere e operare sugli animali liberi, in quanto troppo distanti sono i comportamenti, le esigenze, le abitudini di questi animali nelle due diverse situazioni.
Le uniche ricerche con valore scientifico sono quelle sulle conseguenze indotte negli animali dalla cattività, con un significato però ben diverso perché porta alla conclusione della necessità di porre fine all'esperienza degli zoo e non della loro continuazione. Infatti, quando si promuovono ricerche mirate alla valutazione oggettiva della vita degli animali negli zoo, emergono criticità più che positività, a dimostrazione della negatività del confinamento e della non validità degli zoo. Al riguardo si può ricordare il corposo lavoro di Clubb e Mason.1
Il significato educativo
Il messaggio educativo degli zoo e dei parchi zoologici è contraddittorio rispetto alla realtà in quanto parrebbe comunicare che sia possibile la conservazione della natura, in questo caso degli animali, all'interno di strutture artificiali. Si diffonde così l'idea che l'artificiale si possa sostituire al naturale, e si capovolge la realtà, perché la conservazione non può che essere il mantenimento dello stato naturale e non ricreare la naturalità con l'artificio. Se poi si ricorda che gli animali negli zoo non rappresentano, e non possono rappresentare, un patrimonio genetico naturale, in quanto si ha una ricombinazione casuale di geni molto diversi, si comprende che il messaggio è totalmente diseducativo poiché si induce la convinzione che si possa fare a meno della natura e che essa si possa conservare artificialmente.
Si promuove altresì l'idea che le specie possano essere preservate a parte rispetto al loro intero ecosistema, mentre è noto che tutelare l'habitat è la sola via per una effettiva conservazione. Questo tipo di messaggio è a sua volta diseducativo in quanto induce il pensiero che l'essere umano possa distruggere a suo piacimento la natura per poi ricrearla anche solo in parte.
Il concetto è esattamente opposto rispetto a quello fondamentale per la conservazione della biodiversità, per cui la salvezza della natura passa attraverso la difesa della sua varietà, che è messa a repentaglio dalla distruzione degli ambienti naturali.
In aggiunta gli animali in cattività non possono essere educati alla vita allo stato libero, e questo diventa un problema per una eventuale reintroduzione e quindi per una vera conservazione delle specie. Quindi anche questo messaggio educativo – dell'importanza delle strutture di mantenimento per la loro conservazione – è errato e controproducente.
Praticamente l'unica funzione svolta dagli zoo è quella di presentare la visione degli animali in un modo però totalmente fuorviante rispetto alla loro natura. È la riproposizione di quell'approccio che da sempre contraddistingue gli esseri umani che, considerando gli animali come inferiori, li utilizzano a loro piacimento oppure li considerano figure da ammirare per le loro forme estetiche di cui si apprezza la bellezza.
Nel complesso si perde ineluttabilmente il significato vero della naturalità degli animali, il loro essere diversi dagli esseri umani e rappresentare una varietà e una ricchezza che va preservata per tutelare la biodiversità complessiva del pianeta, la perdita della quale comporta la scomparsa di specie che non potranno più tornare.
Inoltre il confinamento dell'animale accresce la convinzione che gli altri esseri viventi siano “per natura” inferiori all'essere umano e che questi ne possa fare uso a suo piacimento, metterli in vetrina quando pare ma anche usarli in qualsiasi modo, anche il più crudele.
La visione dell'animale confinato, segregato, in parte richiama l'attenzione dello sguardo sull'aspetto dell'animale, sulla sua bellezza o prestanza fisica, nel contempo però trasmette un significato intrinseco di supremazia umana che porta ad un rapporto distorto perché non rispettoso dell'altro essere, esperienza che soprattutto per i giovani può essere fuorviante e instillare una falsa idea del rapporto dell'uomo con gli altri esseri viventi animati e inanimati, come hanno scritto autori diversi di psicologia tra i quali si può ricordare Annamaria Manzoni.2
Al giorno d'oggi sono più utili per la conoscenza degli animali i filmati, che permettono di vedere gli animali nel loro habitat e quindi di apprezzarne la varietà, la bellezza e la complessità dei loro comportamenti. In verità occorre spendere qualche parola anche sul fatto che i filmati spesso indulgano in maniera eccessiva su alcuni aspetti che si ritiene siano più suggestivi, quali la predazione nelle specie predatrici, magari a scapito di altre attività, quali l'esplorazione del territorio o il gioco o l'educazione dei piccoli che sono sicuramente meno forti ma più formative.
Il risultato complessivo è che, anziché essere un momento educativo, gli animali negli zoo rappresentano una visione distorta della realtà, diffondono una convinzione errata sui sistemi di conservazione della biodiversità e presentano tipologie sociali degli animali che non corrispondono assolutamente alla realtà della vita libera.
A ciò si devono aggiungere le valenze diseducative psicologiche della visione di un animale libero in uno stato di confinamento; cioè, come detto, del rafforzamento dell'antropocentrismo che comporta un possibile svilimento dei valori degli ambienti naturali, vegetali e animali, che può favorire comportamenti di condiscendenza verso le azioni di deterioramento o distruzione di tali ambiti.
Le conseguenze per gli animali negli zoo
Le nascite negli zoo
Le nascite negli zoo sono molto pubblicizzate ma non rappresentano quello che viene loro attribuito. Come detto non sono di utilità per la conservazione delle specie e neppure indicano un buon livello di benessere. La riproduzione di un animale è l'espletamento di una funzione fisiologica determinata anche dai comportamenti etologici, quali la ricerca del partner, la cerimonia dell'accoppiamento. Le molteplici negatività connesse alla vita in cattività non vengono certo meno con la semplice procreazione degli animali, ed essa non può far dimenticare che negli zoo sono permanentemente negate le principali azioni etologiche, dalla ricerca del cibo all'esplorazione del territorio ai rapporti con i consimili; inoltre gli animali sono sottoposti ad una continua pressione psicologica dalla presenza delle persone e dalle stimolazioni connesse.
La procreazione inoltre non segue le modalità etologiche, in quanto in natura l'accoppiamento è inserito in una serie di comportamenti che comprendono la ricerca del partner, e quindi l'esplorazione del territorio, le cerimonie nuziali, ovvero il modo in cui i partner si cercano e si conoscono e infine si ha l'accoppiamento. È del tutto evidente che negli zoo il processo è molto semplificato e ciò può essere un motivo della bassa attività riproduttiva degli animali in confinamento. Pertanto non si può pensare che, permettendo un solo comportamento fisiologico, per di più molto alterato rispetto all'etologia, si possa portare giovamento, se permangono le altre gravi criticità. Avviene così che proprio la scarsità delle nascite sottolinea non già il benessere ma il malessere degli animali.
Il benessere
Negli zoo vi è una inevitabile difficoltà a rispettare i bisogni etologici e fisiologici degli animali, per quanto riguarda più fattori.
È ormai universalmente riconosciuto che l'ambiente di vita è un fattore determinante per il benessere degli animali mantenuti in qualsivoglia situazione di cattività. Il confinamento incide profondamente sulla salute psico fisica degli animali poiché con tutta evidenza la loro vita è correlata con l'ambito in cui si espleta.
L'etologia ha dettagliato esattamente i comportamenti naturali che esprimono le necessità fondamentali per gli animali. Per esemplificare si possono riassumere con il Rollin3 i “comportamenti” naturali degli animali: “condizionamento e apprendimento, capacità sensoriali, abitudini generali, comportamento riproduttivo, comportamento di alimentazione e comportamento sociale”. Sono tutte espressioni delle attività proprie degli animali. Così pure le “Cinque libertà”, che indicano i bisogni fondamentali da rispettare per gli animali in cattività, nell'ultima versione formulata dal Farm Animal Council elencano:
- libertà dalla fame e dalla sete (con cibo e acqua adatti per qualità, quantità e accessibilità)
- libertà dal disaggio (con un ambiente adeguato)
- libertà dal dolore (rapide diagnosi e terapie tempestive e adeguate)
- libertà di esprimere un comportamento specie specifico
- libertà dalla paura dal timore (anche mentale)
Complessivamente si evince che per favorire una sistemazione adeguata occorre garantire situazioni ambientali che rispondono il più possibile alle necessità etologiche oppure alle cinque libertà.
Il problema delle condizioni ambientali da realizzare negli zoo e nei parchi zoologici è di non facile soluzione in quanto si trovano animali di specie molto diversa, con esigenze etologiche anche contrapposte: si pensi ad esempio alla possibile convivenza di specie predatrici e predate. Ancora ci sono specie che hanno esigenze particolari, ad esempio di vita notturna, ed altre che in libertà sono caratterizzate da habitat estesi, che esplorano quotidianamente grandi territori.
Un esempio della difficoltà di corrispondere ai bisogni viene dall'analisi dell'alimentazione. Negli zoo questa è fornita dagli esseri umani mentre in natura è un'attività di assoluto rilievo che prevede la ricerca del cibo che è direttamente collegata con l'esplorazione del territorio. In cattività non si sviluppano inoltre i pattern comportamentali dipendenti da tutte le esperienze possibili solo in natura. Tra queste, il confronto con animali di altre specie, predatorie o predate, l'esplorazione del territorio e il riconoscimento delle sue caratteristiche, la ricerca delle variazioni intervenute nell'intervallo tra due successivi passaggi nello stesso posto. Tutte queste attività sollecitano l'intelligenza degli animali e sono invece negate in cattività per cui facilmente subentra la noia.
A conferma di ciò si è osservato che gli elefanti africani e asiatici nei loro ambienti naturali utilizzano tra il 40% e il 75% del loro tempo nell'attività di alimentazione4. In particolare, gli elefanti asiatici possono consumare tra 33,6-44,4 kg di erba per 12 ore5 che equivale ad una percentuale variabile tra 1,5-1,9 % del loro peso corporeo. Inoltre, gli elefanti africani del Delta dell'Okavango6 possono percorrere 30 - 50 km in una sola giornata7 e si è calcolato che spendono il 57% delle ore di luce in movimento e alimentazione.
Al contrario, e inevitabilmente, l'attività fisica è molto limitata nei giardini zoologici e il pascolo non è disponibile nel 90% dei giardini zoologici europei che mantengono elefanti asiatici.8
Non è contestabile che negli zoo, qualunque sia la struttura realizzata, non è possibile fornire agli animali la libertà di movimento e la qualità dell'ambiente naturale. E ciò vale per tutte le specie.
Gli studi rilevano che la sistemazione offerta agli animali in cattività è insufficiente e questa causa una diminuzione delle attività. Così ocelot, giraffe e okapi in cattività sono meno attivi rispetto ai loro omologhi selvatici,9,10 anche se la differenza non è quantificata per tutte le specie. In uno studio comparativo tra i bilanci di tempo di giraffe selvatiche e in cattività, gli ungulati in confinamento hanno trascorso in media più tempo in movimenti stereotipi rispetto a quelli liberi, (42 % contro 23%). Anche quando gli Autori hanno confrontato gli zoo che più si avvicinavano alle condizioni selvatiche dimensioni e struttura dei recinti, è ancora stata notata una differenza significativa nel tempo di alimentazione (76,9% in libertà, 26% nello zoo) e negli atteggiamenti stereotipi (0% selvatico, circa il 13% zoo)7. Il dato dell'utilizzo del tempo viene fatto in relazione a quanto avviene allo stato libero poiché è evidente che in libertà si osserva il comportamento etologico.
Oltre ad essere limitato, l'ambiente negli zoo è nella maggioranza dei casi poco stimolante e di fatto rende impossibile il gioco. In natura il gioco svolge una forte funzione di stimolo intellettivo e si esplica nell'interazione con l'ambiente naturale, con i parenti e con i consimili. È evidente che tali fattori non sono disponibili negli zoo, o solo in alcuni di essi, come la presenza di qualche consimile o della prole, le rare volte che gli animali si riproducono. Viene pertanto a mancare un altro elemento di stimolo della funzione cerebrale la cui assenza aumenta la possibilità che si instauri uno stato di noia.
Gli animali inoltre sono costretti a stimolazione continua per la presenza delle persone e non possono usufruire di aree dove sottrarsi alla loro vista, perché cesserebbe lo scopo di “metterli in mostra”. A questo proposito di deve ricordare che nella vita naturale tutti gli animali, anche quelli esotici e selvatici, trascorrono molto tempo a riposare e pertanto negli zoo si realizza una condizione che nega un bisogno essenziale.
Non hanno infine una vita sessuale etologica, che in natura non si risolve nel semplice atto dell'accoppiamento ma si inserisce nell'attività di esplorazione del territorio, richiede una ricerca, impone il rispetto delle cerimonie che precedono l'accoppiamento per vincere la concorrenza dei conspecifici: tutti fattori che sono assenti negli zoo.
L'ambiente quindi, non rispondendo alle necessità fisiologiche ed etologiche, diventa una causa, riconosciuta scientificamente, di stress, il quale è di per sé motivo di sofferenza e di abbassamento delle difese organiche, condizioni che si possono ripercuotere negativamente sulla sopravvivenza degli animali.
Le ricerche hanno dimostrato che il processo per cui un ambiente di cattività può indurre stress è valido per tutte le specie animali e si presenta anche negli animali degli zoo.
Ad esempio le ricerche di Kurt e Coll.11, e di Gruber e Coll.12 hanno presentato i dati sulla presenza di stereotipie negli elefanti in condizioni di confinamento, circhi e zoo; le stereotipie sono universalmente riconosciute come indicatori di stress, che ne dimostrano oggettivamente la presenza. Le stereotipie sono comportamenti ripetitivi senza finalità pratica, che gli animali manifestano quando sono impossibilitati a svolgere attività motivate, cioè quelle che svolgono nelle vita naturale (Mason13). Le ricerche citate sono relative agli elefanti ma lavori analoghi si trovano in letteratura per tutti gli animali, ad esempio le tigri.14
Anche le ipotesi per cui lo stress determina un abbassamento delle difese immunitarie e può rendere gli animali in cattività più facilmente soggetti alle patologie con una minore longevità rispetto agli animali selvatici, è stata confermata dalle ricerche. Lo stress agisce negativamente perché sottopone il fisico ad un continuo sforzo di adattamento che lo usura e lo rende meno adatto a reagire agli assalti dei germi e contribuisce a creare condizioni fisiche generali più deboli rispetto all'età anagrafica; in questo senso si può affermare che gli animali in cattività mostrano segni di invecchiamento più celermente rispetto alla vita libera.
La sopravvivenza degli animali differisce significativamente tra animali che conducono una vita libera e quelli in condizioni di confinamento.
Uno studio sulla sopravvivenza media di un campione di 4500 elefanti ha confrontato la durata della vita tra gruppi di elefanti viventi negli zoo, sia nati in cattività sia nati liberi e poi rinchiusi, confrontandola con l'età media della mortalità naturale. Il tasso di sopravvivenza era molto più elevato negli elefanti delle riserve naturali rispetto ai gruppi presenti negli zoo, con una differenza di 20 anni (50 anni di sopravvivenza negli zoo rispetto ai 70 delle riserve naturali, che non vanno confuse con parchi zoo variamente definiti).15
Considerato che i gestori degli zoo hanno interesse a garantire la salute e la sopravvivenza dei propri animali, è evidente che la marcata differenza tra la vita naturale e quella di cattività induce alla conclusione che sia la differenza della tipologia di vita ad incidere in maniera importante sulla diversità dei risultati. A conferma si può citare il lavoro di Clubb e Mason nel quale si afferma che la mortalità è un indice di scarso benessere, cioè di malessere.16 Altri studi, quale quello di Kurt e Mar17 hanno approfondito il tema della mortalità neonatale negli elefanti asiatici presenti negli zoo, rilevando dati peggiori rispetto alla vita libera.
Le ricerche si riferiscono spesso agli elefanti, perché è una popolazione molto diffusa nelle strutture e rappresenta quindi un campione facilmente studiabile, i risultati ottenuti sono però estrapolabili alle altre specie in quanto le condizioni di base che vengono chiamate in causa dalla ricerca, cioè la differenza della vita libera rispetto alla cattività, sono uguali in tutte le specie di animali mantenute in cattività in quanto per tutti valgono gli stessi principi di negazione dei basilari bisogni della vita libera.
Lo stress e le sue manifestazioni
Allo stato attuale delle conoscenze, gli Autori sono pressoché concordi nel riconoscere il meccanismo con il quale un ambiente inadatto genera sofferenza negli animali. Qualunque animale, immesso in un ambiente che non permette l'espletamento dei suoi comportamenti naturali (etologici), subisce un danno e cerca di adattarsi alla nuova condizione. Lo sforzo dell'organismo è stato descritto da Selye18 come “Sindrome generale di adattamento” che è la causa dello stress, termine che ha poi prevalso nell'uso scientifico e comune. Se le condizioni ambientali non sono troppo negative, l'individuo può assuefarsi, lo stress rimane contenuto o superato del tutto. Se, al contrario, le condizioni sono molto negative l'organismo non può arrivare ad un adattamento e si instaura uno stato di stress cronico o meglio di “distress”.
Lo stress cronico quindi è causa di sofferenza, intesa come “la percezione o la sensazione di un incombente evento rovinoso o di un danno; la sopportazione o la sottomissione ad uno stress fisico o mentale, dolore o danno” (Gaynor e Muir).19
Lo stress provoca delle conseguenze sugli organismi, attraverso l'attivazione dell'asse ipofisi-cortico-surrenale (che determina la produzione di corticosteroidi) e dell'asse simpatico-medullo-surrenale (che controlla l'emissione di catecolamine). A loro volta gli ormoni sollecitano a cascata altre importanti modificazioni, ad esempio l'aumento di produzione dell'ormone della crescita e dell'insulina, così come l'accelerazione del battito cardiaco: tutti elementi indicatori di uno stato di stress. Nell'insieme queste alterazioni hanno ricadute negative sulla redditività degli animali (minore crescita ponderale) e sullo stato di salute, con una maggiore possibilità di insorgenza di malattie per la depressione delle difese immunitarie.
È possibile identificare una serie di “indicatori”, che sono parametri oggettivi il cui scostamento rispetto ai valori normali indica la presenza di stress; esistono indicatori fisiologici, patologici, produttivi ed etologici. Gli indicatori etologici permettono di oggettivare e catalogare gli atteggiamenti e i comportamenti innaturali degli animali, come conseguenza dello stress.
Oltre che attraverso gli indicatori, lo stress degli animali negli zoo può essere valutato facendo riferimento alle “cinque libertà” citate in precedenza, poiché la violazione di una o più libertà, determina una condizione di negatività e malessere, in modo proporzionale alla gravità gravità della privazione. Le “cinque libertà” sono molto interessanti ai fini valutativi perché hanno un significato predittivo, in quanto dall'analisi di quanto esse vengano garantite agli animali detenuti, si può prevedere se deriveranno loro delle conseguenze negative. Dunque, mentre gli indicatori evidenziano la presenza dello stress, le “cinque libertà” permettono di prevedere se la situazione analizzata potrà causare una risposta negativa dell'animale prima ancora che essa si manifesti.
È quasi comprensibile che i gestori delle strutture cerchino di contrastare i segnali negativi, modificando soprattutto gli indicatori produttivi e patologici che sono quelli più suscettibili a trattamenti farmacologici, e facendo sì che gli animali diano risposte fallacemente negative, ovvero apparentemente normali perché corrette con le terapie. Ad esempio l'indice di natalità – che è uno degli indici produttivi spesso enfatizzati - può essere migliorato appositamente con l'inseminazione artificiale o con medicinali ormonali. Pure i parametri fisiologici possono essere falsati, perché le metodiche di rilievo, come il prelievo di campioni ematici, è di per se stesso un possibile motivo di stress. Per ovviare a tali criticità, sono in uso da qualche tempo sistemi di controllo che non prevedono un maneggiamento dell'animale: si può ricorrere al controllo del cortisolo fecale, che non necessita di alcuna partecipazione dell'individuo, ma che non riesce a fornire risposte utilizzabili se in uno stesso ambiente sono collocati più animali. È stato così messo a punto un sistema per determinare il cortisolo salivare facendo masticare agli animali una spugna imbevuta di sostanze a loro appetibili. In tal modo non si turba il soggetto e gli esiti sono anche individuali.
Il rilievo degli indicatori etologici non coinvolge direttamente l'animale, semplicemente osservato per un congruo periodo di tempo e permette di evidenziarne le etoanomalie (cioè comportamenti innaturali). L'unica accortezza per l'osservatore è di scegliere una posizione che non disturbi l'animale in esame; negli zoo le osservazioni etologiche sono pertanto facilitate.
Tra i comportamenti che costituiscono indicatori etologici di stress sono da molto tempo note le stereotipie, tra le quali il pacing è facilmente osservabile, con gli animali che percorrono incessantemente il perimetro o anche solo un lato della gabbia o del recinto.
Le ricerche hanno dimostrato che le stereotipie sono più comuni nei carnivori in cattività durante le ore crepuscolari, quando in natura sono fisiologicamente più attivi (Weller & Bennett)20 parimenti possono intensificarsi stagionalmente – come nel caso dell'orso bruno - in corrispondenza dei periodi in cui l'attività di ricerca del compagno è più sviluppata (Carlstead & Seidensticker).21
Le percentuali di presenza delle stereotipie variano ampiamente nei carnivori presenti negli zoo, così si è rilevata una media dello 0,16% delle osservazioni in volpi rosse (Vulpes vulpes), del 30% in leoni (Panthera leo) e fino al 60% nelle tigri (Bashaw et al 200322; Clubb & Mason23)
Per quanto riguarda gli elefanti negli zoo, Clubb e Mason24 hanno riportato il 4% delle stereotipie.
Ancora altri ricercatori (Mallapur & Chellam25; Montaudouin & Le Pape26) hanno osservato che gli orsi nello zoo e leopardi (Panthera pardus) hanno un passo di ampiezza minore, e i pappagalli in cattività mostrano più stereotipie orali e locomotore in gabbie sterili rispetto a quelle con arricchimenti (Meehan et al.27).
Il movimento stereotipo di “tessitura” o “weaving” degli elefanti, ovvero il ciondolare la testa alternativamente a destra e a sinistra, è di rilievo abbastanza frequente, anche se da alcuni si sostenga che aiuti la circolazione come il camminare in libertà. (Friend28). Se anche la “tessitura” servisse ad attivare la circolazione, questo non modifica il fatto che la sua espressione rientra tipicamente nella definizione di stereotipo ovvero di comportamento ripetuto ossessivamente. La finalità, qualora fosse dimostrata, di essere utile alla circolazione sarebbe una testimonianza ulteriore del malessere dell'animale che cerca di sopperire alle condizioni di forte negatività, così un tale comportamento diventa in ogni caso denuncia dello stress dell'animale.
Da qualche tempo si è pensato di introdurre all'interno delle gabbie e dei recinti degli oggetti in grado di stimolare gli animali sollecitando la loro curiosità e stimolandoli mentalmente per contrastare lo stress. Secondo Desmond & Laule29 l'accorgimento produrrebbe benefici effetti sulla capacità riproduttiva negli zoo. È bene tuttavia sottolineare che tali oggetti, definiti tecnicamente “arricchimenti”, sono utili in maniera proporzionale alle condizioni fornite agli animali. Se le situazioni sono fortemente negative, ben difficilmente gli arricchimenti riusciranno a compensarle; al contrario se le condizioni sono più vicine ai bisogni degli animali, l'effetto sarà più consistente.
Un altro elemento cui porre attenzione è la tipologia degli oggetti, i quali devono essere scelti in modo corrispondente all'etologia dell'animale. Anche la tipologia della gabbia o del recinto entra nel concetto di arricchimento poiché quanto più sarà conforme alle esigenze naturali tanto più porterà giovamento agli animali insieme agli altri arricchimenti.
Va però in ogni caso considerato che la vera risposta all'utilizzo dell'arricchimento viene dall'animale stesso, se, infatti, nonostante la loro disponibilità, si evidenzia la presenza di indicatori di qualsiasi tipo (fisiologici, produttivi, patologici o etologici) che segnalano una sofferenza, è chiaro che ci si trova di fronte ad una situazione di malessere tale sulla quale poco o nulla servono gli arricchimenti.
Complessivamente si devono sottolineare alcuni principi.
Innanzi tutto che le osservazioni sono significative non tanto per il rilievo puntuale cui si riferiscono, ovvero le specie interessate e le modalità, quanto per il fatto che confermano un assunto importante: la stereotipia, come la presenza di altri indicatori di stress quali ad esempio l'aggressività, è di per sé il segno di una condizione negativa per l'animale. Quand'anche fosse osservata per la prima volta in una specie prima non considerata, la sua presenza è ineludibilmente associabile allo stress. Infatti, come afferma Mason30, le stereotipie sono comportamenti ripetitivi senza scopo apparente che si sviluppano quando un animale in cattività è impedito nell'esecuzione di un comportamento altamente motivato, cioè sono il segno di una forte privazione comportamentale dell'individuo animale.
Insieme alle stereotipie, i comportamenti problematici di più comune osservazione sono quelli di apatia, noia, disinteresse con gli animali che passano lungo tempo abbandonati in maniera indifferente, totalmente ignorando quanto avviene loro intorno. È questo un atteggiamento che si deve differenziare dal riposo fisiologico. Ogni animale alterna con un proprio ritmo i momenti di attività, di riposo e di sonno propriamente detto. Nel riposo l'individuo animale non perde del tutto la sua reattività ed è in grado, se si presenta una stimolazione esterna, di passare rapidamente allo stato vigile; nella condizione di apatia, invece, l'animale non risponde agli stimoli se non dopo un certo lasso di tempo e dopo che questi hanno superato una soglia di attenzione molto più alta di quella presente nel riposo.
L'apatia è un indicatore etologico riconosciuto di stress e il fatto che essa sia facilmente osservabile è un altro chiaro segnale del malessere degli animali nella vita confinata all'interno degli zoo.
Le malattie
Non solo si possono rilevare forme dovute alla immunodepressione indotta dallo stress, come già detto in precedenza, ma anche patologie direttamente collegate alla cattività indotta.
La cattività può determinare direttamente il fatto che gli elefanti negli zoo, a causa dello scarso esercizio fisico diventino obesi provocando delle conseguenze negative alle zampe e ai legamenti (Kurt e Hartl31). In un controllo su 62 elefanti asiatici e 5 africani in tre circhi e cinque zoo i veterinari hanno rinvenuto un'alta incidenza di disordini di tipo reumatoide e in uno si è osservata un'artrite cronica e zoppia.32 La zoppia è una problematica comune non solo nei circhi33 ma anche negli zoo ed è significativamente più rara negli elefanti liberi.34
Inoltre negli zoo in cui gli elefanti sono mantenuti in un ambiente con superficie in sabbia, possono introdurre sabbia e anche sassi con grave detrimento per la loro salute.35
L'immunodeficienza può essere il motivo per cui la trasmissione delle malattie è più rapida e comune in cattività rispetto alla vita libera; per esempio, si è dimostrato che gli elefanti africani trasmettono il l'herpes virus endoteliotropo (EEHV), mortale, agli elefanti asiatici negli zoo europei.36 Le due specie, africana e asiatica, non si incontrano in natura mentre la comunanza è possibile in cattività, anche perché spesso non ci si cura di tali particolari quando si allestiscono gli zoo. Il virus colpisce gli elefanti molto giovani e causa anche aborti neonatali per cui costituisce un'ulteriore minaccia al successo riproduttivo degli elefanti in cattività in aggiunta all'infanticidio e all'abbandono della prole.11
Altri problemi sanitari derivano dal fatto che è difficile evitare il contatto tra la fauna locale – attratta dal cibo - e gli animali degli zoo (e dei circhi); ciò può facilitare la diffusione delle malattie. In Svizzera alcuni anni fa si è avuta una forma dovuta al virus del cimurro, probabilmente trasmesso da animali selvatici (martore) che ha colpito leoni e tigri.37 È vero che negli zoo le recinzioni sono previste sia per evitare le fughe degli animali sia per impedire questo pericolo, ma è difficile riuscire ad evitare totalmente ogni forma di contatto, anche perché gli uccelli possono svolgere un ruolo importante nella trasmissione.
Altre tipologie, bioparchi e simili
Rileggendo le voci analizzate in precedenza, si può constatare come le criticità rilevate siano ugualmente presenti nelle strutture che si stanno diffondendo e che appunto hanno perso la dizione “zoo” a favore del termine “parco”. Le modalità di mantenimento degli animali non differiscono sostanzialmente da quelle degli “zoo” e lasciare qualche metro quadro in più non cambia la condizione degli animali. È molto significativo, al riguardo, come le nascite di cuccioli, di qualsivoglia specie siano sempre molto limitate di numero e le poche che avvengono sono molto pubblicizzate proprio per cercare di confermare l'idea di una sistemazione benevola per gli animali. Nel ragionare su queste strutture si deve tener conto che una maggiore disponibilità di spazio, comunque limitato, non cambia la condizione dell'animale ancora di più se, ad esempio, l'ambiente rimane spoglio e l'animale è mantenuto in forma solitaria. Una tigre, che percorre in libertà chilometri ogni giorno, non avrà molto giovamento se il recinto è leggermente più ampio, e non lo condivide neppure con un compagno.
Così confinare pinguini in un ambiente corredato da una vasca, non sarà di grande giovamento se si considera che il mare non è per loro uno svago ma l'ambiente di vita, di pesca, esplorazione e gioco. In una vasca senza grandi stimoli, gli animali non hanno l'incentivo neppure per giocare, perché il gioco è il coronamento di un'insieme di attività e ben difficilmente si sviluppa se è l'unica possibilità esistente.
Si tratta di due semplici esempi, ma le problematiche, per qualsiasi specie animale, sono sostanzialmente le stesse: nella vita confinata una disponibilità maggiore di spazio, ma comunque sempre molto ridotta rispetto alle caratteristiche etologiche degli animali che in natura hanno habitat molto estesi, non cancella le negatività legate alla vita in cattività.
La Direttiva europea
La legislazione europea nasce con un approccio “protezionista”, come tutte le leggi europee e nazionali in materia, secondo il principio della “riduzione del danno” ovvero della contenimento della sofferenza indotta dalle diverse situazioni contemplate. Anche in materia di zoo si è seguita tale linea e si è legiferato sollecitando gli zoo ad indirizzarsi verso obiettivi di formazione, ricerca e
tutela della biodiversità nel contempo chiedendo il rispetto di condizioni ambientali non troppo negative.
Il punto cruciale e contraddittorio del percorso è che si prevedono delle finalità che sono impossibili da realizzare negli zoo, come si è evidenziato in precedenza, tanto che esse si possono definire buoni propositi inarrivabili che servono a giustificare la continuazione dell'attività ma non tengono conto dei risultati oggettivi delle ricerche scientifiche, le quali hanno dimostrato che nessun obiettivo posto dalla Direttiva è perseguibile dagli zoo.
Se già a livello scientifico si possono criticare le finalità legislative poste agli zoo per giustificarne la permanenza, la situazione appare ben peggiore quando si analizza la realtà: un'indagine effettuata presso numerosi zoo europei ha rilevato una serie di gravi lacune gestionali.
In primo luogo si sono individuate diffuse carenze gestionali non solo amministrative per quanto riguarda l'acquisizione e la provenienza degli animali, ma anche relativamente alle condizioni strutturali stesse, quale scarsa manutenzione, mancanza di arricchimenti, elementi pregiudizievoli per la condizione degli animali. In molti casi i progetti educativi erano assolutamente scadenti e inadatti, e le attività di ammaestramento continuavano pur essendo vietate, allo scopo, come ben si può comprendere, di rendere gli animali di più interessante osservazione per i visitatori.
Anche molto grave il rilievo che gli operatori in servizio, in molti stati, non sanno fornire cure adeguate agli animali.
La ricerca concludeva affermando che la Direttiva europea non ha raggiunto alcun obiettivo che si era prefissa.38 Quindi si può affermare che non solo la Direttiva europea si basa su di una forte contraddizione in quanto prevede finalità che non possono essere realizzate ma è pure largamente disattesa
Conclusioni
Gli zoo – e le strutture quali bioparchi e simili – non servono a raggiungere gli obiettivi che sarebbero alla base della loro esistenza.
Non hanno una reale utilità per quanto riguarda la tutela delle specie a rischio. Gli animali esotici presenti negli zoo, infatti sono una piccolissima percentuale, appena il 2 per cento, delle specie in pericolo secondo lo IUCN, e gli animali allevati in cattività non sono adatti ad essere reintrodotti nell'ambiente.
La ricerca scientifica si può definire parziale in quanto non fornisce dati utilizzabili in senso assoluto poiché, essendo riferiti alla cattività, non corrispondono alla vita naturale.
Lo scopo educativo non è positivo e, soprattutto per i giovani, contribuisce a formare un'idea erronea degli animali selvatici e a riproporre una visione antropocentrica del rapporto tra gli esseri umani e gli altri esseri viventi, con possibili convinzioni erronee che potrebbero permettere atteggiamenti negativi nei confronti degli ambiti naturali vegetali e animali.
Invece è possibile dimostrare obiettivamente, e in misura sempre maggiore, che le condizioni causano inevitabilmente una condizione di stress e quindi di sofferenza per gli animali. Le etoanomalie presenti, soprattutto stereotipie e apatia, il tempo di sopravvivenza minore in cattività che in libertà e l'alta mortalità infantile, la presenza di forme patologiche sono elementi che confermano le negatività per i selvatici di vivere in stato di confinamento.
A tal proposito si deve rilevare come tali criticità non siano adeguatamente conosciute e pubblicizzate sia tra la popolazione sia tra gli amministratori pubblici.
A ciò si deve aggiungere che la tecnologia odierna permette di osservare gli animali con altri mezzi e strumenti che forniscono elementi di conoscenza ben più approfonditi e reali di quella possibile nelle strutture dove gli animali vivono confinati.
Complessivamente pertanto appare del tutto superata l'utilità di tali strutture e pertanto si deve operare affinché si giunga al riconoscimento della loro obsolescenza e quindi alla chiusura.
Note:
1 - R Clubb, G Mason “A Rewiew of the Welfare of Zoo Elephants in Europe “ Report commissioned by th RSPCA – Univ. Oxford, Animal behaviour research group, Department of Zoology.
2 -A. Manzoni In direzione contraria, ed. Sonda, 2009
3 - B. Rollin, Il lamento inascoltato, ed. Sonda, 2011
4 - Sukumar, R. (2003) The living elephants – evolutionary ecology, behaviour, and conservation. Oxford University Press, New York, USA
5 - Sukumar, R. (1992) The Asian elephant: ecology and management. Cambridge University Press, Cambridge, UK
6 - Evans, K. personal communication
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35 -Schulze, W. (1986) Zur Haltung von Elefanten im Zirkus mit Beruecksichtigung ihrer Minimalbeduerfnisse [On the keeping of elephants in a circus with regard to their minimal environment]. Praktische Tierarzt 67: 809-811
36 - Fickel, J., Richman, L.K., Montali, R., Schaftenaar, W., Göritz, F., Hildebrandt, T.B. & Pitra, C. (2001) A variant of the endotheliotropic herpesvirus in Asian elephants (Elephas maximus) in European zoos. Veterinary Microbiology 82: 103-109
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38 - The EU Zoo Inquiry 2011. www.euzooinquirv.eu
Per gentile concessione dell’Autore
Enrico Moriconi è Medico Veterinario Dirigente Servizio Sanitario Nazionale, Consulente Tecnico Etologia e Benessere animale
3 maggio 2015